Diffamazione sui social e diritto di cronaca

Risulta ravvisabile l’esimente del diritto di critica, che è configurabile quando il discorso critico abbia un contenuto prevalentemente valutativo e si sviluppi nell’alveo di una polemica intensa e dichiarata su temi di rilevanza sociale – come è quello ravvisabile nel caso di specie – senza però trascendere in attacchi personali, finalizzati all’unico scopo di aggredire la sfera morale altrui, richiedendosi che il nucleo ed il profilo essenziale dei fatti non siano strumentalmente travisati e manipolati. Limiti che, nel caso in esame, risultano rispettati“: così ha statuito la Cassazione Penale, Sez. V, con la sentenza del 6 Settembre 2024, n. 33994 (testo in calce).

In particolare, secondo la pronuncia in esame, “Compito del giudice è, dunque, di verificare se il negativo giudizio di valore espresso possa essere, in qualche modo, giustificabile nell’ambito di un contesto critico e funzionale all’argomentazione, così da escludere la invettiva personale volta ad aggredire personalmente il destinatario, con espressioni inutilmente umilianti e gravemente infamanti”.

La Corte di Cassazione, nel motivare la sentenza de qua, ha preliminarmente precisato che “il bene giuridico tutelato dall’art. 595 cod. pen. è l’onore nel suo riflesso in termini di valutazione sociale (la reputazione intesa quale patrimonio di stima, di fiducia, di credito accumulato dal singolo nella società e, in particolare, nell’ambiente in cui quotidianamente vive e opera) di ciascuna persona; come è stato affermato, secondo quella che viene comunemente identificata come concezione fattuale dell’onore, ciò che viene tutelato attraverso l’incriminazione in parola, è l’opinione sociale del “valore” della persona offesa dal reato. Pertanto, la condotta tipica consiste nell’offesa alla reputazione, nel senso che è necessario che, attraverso la comunicazione, scritta o orale, le parole o il segno utilizzati siano oggettivamente idonei a ledere la reputazione del soggetto passivo, e l’evento è costituito dalla comunicazione e dalla correlata percezione o percepibilità, da parte di almeno due consociati, di un segno (parola, disegno) lesivo, che sia diretto, non in astratto, ma concretamente, a incidere sulla reputazione di uno specifico cittadino. Si tratta di evento, non fisico, ma, psicologico, consistente nella percezione sensoriale e intellettiva, da parte di terzi, dell’espressione offensiva”.

La Corte ha ulteriormente precisato che “la nozione di “critica“, quale espressione della libera manifestazione del pensiero, oramai ammessa senza dubbio dall’elaborazione giurisprudenziale, rimanda non solo all’area dei rilievi problematici ma, anche e soprattutto, a quella della disputa e della contrapposizione, oltre che della disapprovazione e del biasimo anche con toni aspri e taglienti, non essendovi limiti astrattamente concepibili all’oggetto della libera manifestazione del pensiero, se non quelli specificamente indicati dal legislatore. Limiti che sono rinvenibili, secondo le linee ermeneutiche tracciate dalla giurisprudenza e dalla dottrina, nella difesa dei diritti inviolabili, quale è quello previsto dall’art. 2 Cost., onde non è consentito attribuire ad altri fatti non veri, venendo a mancare, in tale evenienza, la finalizzazione critica dell’espressione, né trasmodare nella invettiva gratuita, salvo che la offesa sia necessaria e funzionale alla costruzione del giudizio critico (Sez. 5 n. 37397 del 24/06/2016, Rv. 267866).

A differenza della cronaca, del resoconto, della mera denunzia, la critica si concretizza nella manifestazione di un’opinione (di un giudizio valutativo). È vero che essa presuppone in ogni caso un fatto che è assunto a oggetto o a spunto del discorso critico, ma il giudizio valutativo, in quanto tale, è diverso dal fatto da cui trae spunto e, a differenza di questo, non può pretendersi che sia “obiettivo” e neppure, in linea astratta, “vero” o “falso”. La critica postula, insomma, fatti che la giustifichino e cioè, normalmente, un contenuto di veridicità limitato alla oggettiva esistenza dei dati assunti a base delle opinioni e delle valutazioni espresse, ma non può pretendersi che si esaurisca in essi”.

Secondo il consolidato canone ermeneutico di questa Corte,”al fine di valutare il rispetto del canone della continenza, occorre contestualizzare le espressioni intrinsecamente ingiuriose, ossia valutarle in relazione al contesto spazio – temporale e dialettico nel quale sono state profferite, e verificare se i toni utilizzati dall’agente, pur forti e sferzanti, non risultino meramente gratuiti, ma siano invece pertinenti al tema in discussione e proporzionati al fatto narrato e al concetto da esprimere. Con questo si intende ribadire che la diversità dei contesti nei quali si svolge la critica, così come la differente responsabilità e natura della funzione dei soggetti ai quali la critica è rivolta, possono giustificare attacchi anche violenti, se proporzionati ai valori in gioco che si ritengono compromessi: sono, in definitiva, gli interessi in gioco che segnano la “misura” delle espressioni consentite.

Tale principio deve trovare applicazione, in primo luogo, allorché le opinioni veementi siano rivolte a soggetti che detengono o rappresentano un potere pubblico, e siano, perciò, giustificate dalla sentita necessità di rispondere anche con durezza a un esercizio del potere percepito come arbitrario o illegittimo, salvi, ovviamente, i non ammessi argumenta ad hominem”. 

Cassazione penale, Sez. V, sentenza 6 settembre 2024, n. 33994