Eccessiva durata della procedura fallimentare e determinazione dell’indennizzo.

“Nel caso in cui il giudizio in cui si è verificata la violazione del principio della ragionevole durata consista in una procedura fallimentare, ai fini della applicazione dell’art. 2 bis,comma 3, legge n. 89 del 2001, secondo cui l’ammontare dell’indennizzo non può essere superiore al valore della causa o, se inferiore, al diritto accertato dal giudice, occorre fare riferimento, in via di interpretazione analogica, al criterio fissato dagli artt. 10 e ss. c.p.c., e quindi all’importo richiesto con la domanda proposta dal creditore nella procedura”: così ha statuito la Corte di Cassazione Civile, Sez. II, con l’ordinanza del 2 dicembre 2024 n. 30789 (testo in calce).

L’art. 2, comma 2 della l. 89 del 2001, come modificato dalla novella di cui al D.L. n. 83 del 2012, convertito, con modificazioni, nella l. n. 134 del 2012, prevede che il giudice, nell’accertare la violazione del termine di ragionevole durata, valuta la complessità del caso, l’oggetto del procedimento, il comportamento delle parti e del giudice durante il procedimento del giudizio presupposto, nonché quello di ogni altro soggetto chiamato a concorrervi o a contribuire alla sua definizione.

Ancora, ai sensi dell’art. 2, comma 2 bis della stessa legge Pinto, si considera rispettato il termine ragionevole di cui al comma 1 se la procedura concorsuale si è conclusa in sei anni.

Ne consegue che, in tema di equa riparazione, per la violazione del termine di durata ragionevole del processo, la durata delle procedure fallimentari deve rispettare la soglia di sei anni, che rappresenta il parametro per le procedure concorsuali.

In numerosi precedenti, questa Corte ha chiarito che si tratta di un termine che “di regola” deve essere rispettato, ritenendo irragionevole una procedura avente una durata superiore a sei anni, termine da qualificarsi legale in quanto direttamente derivante del tenore letterale della norma, che testualmente dispone che il termine “si considera rispettato” (ex multis Cass. 19 ottobre 2022 n.30974).

L’art. 2 bis, comma 3, l. 89/2001, dispone che la misura dell’indennizzo, anche in deroga al comma 1, non può in ogni caso essere superiore al valore della causa o, se inferiore, a quello del diritto accertato dal giudice.

Nell’ individuazione della nozione di “valore della causa” ex art. 2 bis, comma 3, della legge 89/2001 e, in generale, tutte le volte che si debba avere riguardo a tale valore ai fini dell’equa riparazione del danno da durata non ragionevole del processo, deve farsi ricorso, in via di interpretazione analogica, al criterio fissato dagli artt. 10 e ss. c.p.c. e quindi all’importo richiesto con la domanda proposta nel processo presupposto (cfr. Cass. n. 24362 del 2018, secondo cui, per le opposizioni all’esecuzione, viene in rilievo il valore indicato dall’art. 17 c.p.c., ossia quello del credito per il quale si procede).

Ebbene, nel caso in esame, la Corte di Cassazione ha dato continuità al summenzionato orientamento, affermando che, qualora il giudizio in cui si è verificata la violazione del principio della ragionevole durata del processo consista in una procedura fallimentare, occorre far riferimento all’importo indicato nella domanda di insinuazione al passivo.

Cassazione civile, Sez. II, ordinanza 2 dicembre 2024 n. 30789.